L’anarchico Severino e il libro di Magagnoli. Giusto 90 anni fa, all’alba del 1° febbraio 1931, Severino Di Giovanni, appena 23 anni veniva fucilato a Buenos Aires.
Riporto la recensione al libro “Un caffè molto dolce” (QUI il link al libro – sì, è ancora disponibile dopo un quarto di secolo) e l’intervista all’autrice, Maria Luisa Magagnoli, pubblicati sul Centro del 1996, “appena” 25 anni fa.
Severino l’anarchico
“Un caffè molto dolce”, storia di un tipografo rivoluzionario. Un mito in Argentina, sconosciuto nel suo Abruzzo. Una giornalista ricorda la sua vita sfortunata
«Il trenta gennaio del trentuno era un giorno d’estate (…)». Severino «stravolto cercò rifugio in un garage privo di uscite e si accasciò tra le automobili con la certezza d’essere alla fine. Rivide i suoi figli, la sua donna, Chieti, la baia di Rio e il mondo atroce che lasciava, poi appoggiò la bocca della pistola sullo stomaco e si sparò un colpo ma non morì».
E’ il momento culminante di un romanzo, Un caffè molto dolce (Bollati Boringhieri, 32 mila lire), di Maria Luisa Magagnoli. Un libro su un personaggio praticamente sconosciuto in Abruzzo ma che in Argentina è diventato un mito. Severino Di Giovanni venne arrestato fucilato e ucciso dopo un processo farsa durato 24 ore, all’alba del 1° febbraio 1931.
La sua figura di anarchico è ormai leggendaria nel Paese sudamericano ma pochi in Italia e ancor meno in Abruzzo conoscono la sua storia. Il romanzo della Magagnoli è un atto d’amore verso quest’uomo, una folgorazione per l’autrice (come ha dichiarato nell’intervista qui sotto), una ossessione per la quale la giornalista ha trascorso quasi due anni in Argentina, alla ricerca di testimonianze sul rivoluzionario.
«Severino era un uomo che amava fare sensazione. Concepiva le sue azioni in maniera teatrale, voleva sbalordire, voleva umiliare, voleva, soprattutto, terrorizzare».
L’anarchico Severino e il libro di Magagnoli
«Aveva deciso di combattere il fascismo», si legge ancora nel libro, «ad ogni costo, anche da solo, inseguendolo, come gli piaceva ripetere: pur non comprendendo fino in fondo le sue stesse parole, “col ferro e col fuoco”, e s’era imbarcato in un’impresa senza ritorno. Aveva giurato a se stesso che i fascisti d’Argentina non si sarebbero più sentiti al sicuro da nessuna parte, neppure nel proprio letto».
Il caffè molto dolce diventa un leit motiv, una bevanda che ricorre spesso nel libro in cui si alternano il racconto delle peripezie dell’autrice nello sconfinato Paese e gli episodi della vita dell’anarchico abruzzese. Ed è anche l’ultima richiesta di Severino ai suoi carcerieri: «Per cortesia può chiedere che mi portino un caffè? Gradirei che fosse molto dolce». Ma non venne accontentato. Severino Di Giovanni nacque a Chieti nel 190l da una famiglia poverissima. Divenne presto orfano. Frequentò le scuole magistrali non arrivando al diploma. Per qualche tempo insegnò nelle campagne ma fece anche il calzolaio.
A 18 anni sposò una sua cugina, Teresa da cui ebbe tre figli. Nel 1923, subito dopo l’inizio dell’era fascista, lasciò l’Italia per l’Argentina dove trovò lavoro come tipografo. Creò una libreria circolante, divenendo editore e stampando un giornale, il Culmine, destinato agli anarchici.
L’anarchico Severino e il libro di Magagnoli
La sua prima uscita politica fu nel 1925 durante una manifestazione contro i Savoia in un teatro di Buenos Aires. Venne arrestato e subito individuato come personaggio pericoloso, entrò nella clandestinità e si legò a due fratelli argentini, di origine calabrese, la cui sorella, appena sedicenne, presto diventò la sua amante. Lasciò la moglie e i figli per dedicarsi alla lotta politica spesso entrando in contrasto anche con altri oppositori, in particolare quelli che lui definiva dolciastri, cioè non in grado di agire ma solo di opporsi a parole.
«La notte del primo febbraio del trentuno Buenos Aires non dormì. Nell’oscurità stellata, confusi drappelli di curiosi, sparpagliati tra i tigli e le jacaranda avanzavano per via Las Heras…». Alla notizia della cattura dell’anarchico «vestito di nero» la capitale argentina ai riversò davanti al carcere. Centinaia di persone vollero assistere alla fucilazione e tantissime altre attesero fuori dal penitenziario. Poche ore dopo la sepoltura la tomba venne cosparsa di rose.
Un ultimo particolare da sottolineare
Per il suo processo farsa gli venne affidato un difensore d’ufficio. Un tenente dell’esercito, Juan Carlos Franco, che cercò di strapparlo alla morte e, almeno , alla corte marziale. Sembra che il tenente si consiglio con il futuro presidente Peron per la difesa dell’anarchico.
Franco, dopo il processo, venne arrestato a sua volta. Passò un mese rinchiuso in una cella di una caserma di fanteria. Espulso dai ranghi dell’esercito venne liberato e lasciò subito l’Argentina per riparare in Paraguay. «Qualche mese dopo la fucilazione di Severino la dittatura che l’aveva voluto morto cadde e il tenente tornò a Buenos Aires».
L’anarchico Severino e il libro di Magagnoli
Passò ancora del tempo e il tenente Franco venne reintegrato nell’esercito, «venne mandato in una guarnigione del nord-ovest del Paese dove morì, a 35 anni,forse di tifo, forse di intossicazione o forse, come racconta la voce popolare, di veleno».
L’autrice parla del suo intenso rapporto con il personaggio
Un eroe estremo
Libro-verità di Maria Luisa Magagnoli
«E’ stato un incrocio del destino, un grande senso di familiarità e io sono rimasta fedele a questo senso di solidarietà».
Maria Luisa Magagnoli spiega così il suo incontro con l’anarchico Severino Di Giovanni. L’uomo che è al centro del suo libro, un romanzo profondamente legato agli avvenimenti reali accaduti all’emigrante abruzzese fucilato in Argentina nel 1931.
Cosa l’ha colpito di Severino?
«Era un personaggio estremo. Il mio rapporto con lui è stato simile a quello che si ha con un parente. Non ho visto in lui un eroe romantico, ho sentito un legame che era inconfutabile e l’ho seguito».
Di Giovanni è praticamente sconosciuto in Abruzzo eppure a Buenos Aires nel 1931, quando si sparse la notizia della sua cattura e della sua condanna a morte la gente andava al penitenziario per vederlo.
«Sì, era diventato un personaggio leggendario e molte persone si sono raccomandate per andarlo a vedere in quelle ultime ore. Davanti al carcere c’è sempre stata una folla enorme, uomini politici, gente del belmondo che poteva contare su amicizie altolocate ma anche tantissimi operai, lavoratori, contadini».
Parlando di un eroe argentino morto nel 1931 non si può non pensare a un altro argentino, nato invece nel 1928, Ernesto Guevara detto Che. Secondo lei ci può essere qualche paragone tra i due?
«L’unico punto di contatto è il biografo di Severino Di Giovanni, Osvaldo Bayer. Quest’ultimo mi ha raccontato di aver conosciuto il Che a Cuba. Bayer rilevava punti di contatto tra i due ma per me sono uomini molto diversi. Il Che era un uomo cresciuto in una famiglia borghese, tutto sommato in gioventù ha fatto una bella vita. Severino, invece, era un poverissimo contadino dell’Abruzzo, rimasto orfano da giovane e quel po’ di istruzione che aveva se l’è conquistata con i denti.
In Argentina era diventato il simbolo dell’eversione venuta da lontano. Si pensava che le idee anarchiche, socialiste, comuniste, fossero idee puramente importate e non si poteva adattarle a un Paese sudamericano, all’Argentina. E’ stato visto come il male che veniva da lontano e dall’Europa. Non so se Guevara ne abbia avuto notizia. Di certo Severino è molto conosciuto adesso. Qualche anno fa, dopo la caduta della dittatura, c’è stato uno spettacolo teatrale su di lui. Inoltre, cercano di fare un film sulla sua vita da venti anni».
Nel libro parlando dell’ufficiale che lo difese nel processo lei scrive che Peron lo consigliò. E’ vero questo episodio?
«Peron e Franco si conoscevano e fu proprio il presidente Peron a dire di aver consigliato la linea di condotta da tenere nella difesa dell’anarchico, cioè di appellarsi alla giustizia divina. Ma la figura di Severino si trova anche in opere letterarie argentine. So che ci sono stati dei movimenti rivoluzionari a lui intitolati anche perché è stato un antesignano della guerriglia urbana. A Milano c’è un gruppo anarchico intitolato a lui».
Leggi QUI la mia recensione al libro di Marco Patricelli “Il partigiano americano”