Questa intervista è stata pubblicata sul quotidiano “il Centro” il 7 luglio 2008 la ripubblico oggi, 6 luglio 2020, il giorno della scomparsa del maestro per l’addio a Ennio Morricone.
Varcare la soglia di casa Morricone dà un certo effetto. In un palazzo antico, nei pressi di piazza Venezia a Roma, l’appartamento è una comoda casa borghese.
Ma l’impressione è quella di entrare nella storia del cinema. Nonostante la leggendaria ritrosia del maestro, non si può non pensare al premio Oscar alla carriera del 2007, al fatto che il compositore romano – che a novembre compirà 80 anni – è autore di colonne sonore per oltre 500 titoli tra cui qualche decina di capolavori.
Nel libro curato da Gabriele Lucci, «Morricone. Cinema e oltre», lei scrive: «Mi piace pensare che Bach, allorché doveva comporre una cantata alla settimana per l’ufficio liturgico, fosse ben poco libero esteriormente, ma lo fosse interiormente, perché altrimenti non potremmo spiegarci come gli sia stato possibile rinnovare il miracolo della poesia musicale e spirituale centinaia di volte all’interno dello stesso genere». In cosa consiste la sua libertà interiore quando scrive musica per il cinema?
Nella libertà di metterci me stesso, quello che so, quello che amo. Deve venir fuori prima ciò che mi appartiene, poi il servizio al film. Siccome la musica del cinema è considerata a un livello più basso della musica assoluta, siccome anche la musica che noi chiamiamo assoluta è sempre stata commissionata, per questo ho detto quelle parole. Non ho cercato nemmeno una difesa mia ma una giustificazione in generale per tutta la musica di oggi applicata a un arte più giovane, quella del cinema.
Lei ripete spesso che la musica per il cinema è meno importante perché l’immagine è immensamente più forte per il cervello umano. Ma dice una mezza verità perché gli spettatori sono abituati, per esempio, a vedere i film a cui lei ha applicato la sua musica. Se a un ascoltatore che non abbia visto il film si proponga la sua musica l’impatto emotivo sarebbe comunque fortissimo. Non pensa?
L’impatto emotivo ci può essere. Il fatto che l’immagine è più essenziale della musica lo dico per un’altra ragione, per me è molto importante: perché l’occhio è più abituato a vedere che l’orecchio ad ascoltare. Soprattutto nel cinema dove la musica arriva da una fonte che non è chiara, non è il suono realistico di un grammofono, di una radio, di qualsiasi altra cosa. Quando arriva questo suono noi lo percepiamo per quello che è: lo vediamo anche. La musica, quella applicata dal compositore e dal regista, non la vediamo. “Vediamo” quella del grammofono, del giradischi, della radio che trasmettono i suoni, ma quella applicata al film non la vediamo. Quindi è più difficile percepirla. C’è una sola maniera per percepirla: che il regista faccia largo a tutti gli altri elementi del suono e lasci la musica a esprimere tutta la sua possibilità espressiva.
Però, se si ascolta la sua musica, a prescindere dall’immagine del film a cui è stata applicata, comunque è di grande impatto emotivo.
In genere dovrebbe essere giustificata non solo dal film ma dalle intenzioni del film e, prima, da quelle del compositore. Dipende dalla tecnica, dalla voglia e anche dalla presunzione del compositore. Quelli che fanno attività creativa devono avere la presunzione di fare il meglio possibile e che questo sia qualcosa che li rappresenti. Che poi è qualcosa abbastanza normale.
All’Aquila, quando nel novembre scorso è venuto a presentare il volume scritto con Lucci, lei ha spiazzato l’uditorio dicendo a proposito del tema di Jill in «C’era una volta il west» di Sergio Leone (l’arrivo di Claudia Cardinale): «Mi dispiace deludervi ma il tema è una semplice esercitazione sugli intervalli di sesta e a me interessava fare un tema su questo intervallo. L’ispirazione non esiste». Vuole chiarire ulteriormente questo concetto?
Io penso che il compositore deve venire fuori con le sue qualità. Mettendo un segno sulla carta mi do delle risposte. Non credo né al fatto melodico venendo da una scuola un po’ avanzata e non credo nemmeno all’ispirazione e allora per fare una melodia che abbia un minimo di originalità nella musica tonale, bisogna trovare altre ragioni per renderla possibilmente originale, ma non sempre si riesce. Quindi l’intervallo di sesta, in quel caso, era un intervallo che mi sembrava (ed è) più gioioso di un intervallo di terza minore o di quinta e quello mi dava il senso di poter scrivere una melodia serena. Tante volte scelgo intervalli di seconda, minore o maggiore, o di quinta.
Come lavora un compositore e quanto è differente il lavoro tra musica applicata e musica assoluta?
A questa seconda domanda è più facile rispondere. La musica applicata nasce dalle intenzioni di servire il film e quindi nasce come collaborazione secondaria al film. Secondaria nel senso che non è la prima opera, è un’opera inventata per quella principale. La musica assoluta nasce solo dall’intenzione del compositore di scriverla e quindi naturalmente è più libera. Anche nella musica applicata si può trovare una ragione precisa per giustificarla per renderla più assoluta di quello che potrebbe sembrare. Il mio metodo di lavoro mi è difficile spiegarlo. Si basa sulla riflessione e sulla velocità di pensiero. Le intuizioni possono essere veloci oppure farti un po’ soffrire. Per esempio, per un film come “Novecento” ho avuto l’intuizione di quello che dovevo fare presto. Per un lavoro scritto per Giugiaro anche: è venuto qui a casa e mi ha detto “Scriva quello che vuole”. Quando sento la fiducia del committente rendo di più, so che posso spingere, perché poi se la fiducia me la danno e si pentono di avermela data io ormai la musica l’ho scritta (ride). Sono sempre incoraggiato quando sento di avere avuto la fiducia.
Vuol dire che lavora più volentieri con alcuni registi?
No, non è neanche questo. Nel cinema, quando c’è la necessità di scrivere la musica per una scena è normale che il regista dica la sua opinione, dica delle cose che magari non condivido. Quello sforzo a volte sembra assurdo e per questo sono disposto anche a litigare, bonariamente s’intende, a contrappormi a quest’idea. Quando penso che il regista abbia detto delle sciocchezze, poi ci ripenso e i risultati magari sono ancora più sorprendenti perché sono un compromesso tra quello che volevo io e quello che chiedeva il regista. E allora magari i risultati sono inaspettati, che non potevo immaginare, e spesso anche buoni.
Qualche esempio? Forse con De Palma per The Untouchable?
De Palma mi ha fatto fare quello che volevo. No (ride), non m’ha detto fai quello che ti pare, ma io ho fatto lo stesso quello che volevo. C’erano delle precise personalità dei protagonisti, i quattro amici, Al Capone, la famiglia. Non erano delle cose sofisticate, era un film diretto con dei sentimenti molto precisi e non ho avuto difficoltà a scrivere. C’era una cosa che non condividevo, la marcia finale della polizia. Lui non mi ha chiesto una marcia trionfale ma tutte le altre soluzioni che gli avevo mandato non gli sono piaciute. La musica l’ho scritta qui a Roma e gliela mandavo a New York. Alla fine gli ho mandato una lettera e gli ho scritto: di queste nove che ti ho mandato non scegliere la sesta. E lui naturalmente ha scelto la sesta. A me non piaceva e in genere non mi piace finire con i trionfi, con la polizia che vince. Ma io non lo critico, lui l’ha girata così e aveva ragione.
Tutta la musica contemporanea, quella diciamo dalla seconda scuola di Vienna a Darmstadt, insiste su questo punto: l’ispirazione non esiste e addirittura c’erano dei compositori che si basavano, per le loro opere, sull’uso dei dadi cinesi. Ma nelle sue lezioni il maestro Franco Donatoni diceva ai suoi allievi: «Va bene qualsiasi tecnica compositiva ma alla fine la musica deve suonare». Lei come si pone di fronte a questo tema?
Sarebbe un lungo discorso. Io dico a mio figlio Andrea (compositore anch’egli, ndr) puoi scrivere quello che ti pare, poi facciamo i conti. Se poi sono suoni sconci, il timbro è sbagliato e altre cose non lecite è un problema. Bisogna tener presente che anche nella musica assoluta, quella più d’avanguardia, più sperimentale, valgono le antiche regole della tradizione. E’ vero che non si fa la melodia, il contrappunto, ma è vero anche che gli altri parametri che si scelgono, ritmici, timbrici, sussistono ancora. Se qualcuno a Darmstadt ha creduto di poter fare a meno di queste regole ha sbagliato strada. Io non ci ho mai creduto, ho sempre pensato che per la musica ci doveva essere una ragione più scientifica di scriverla, più cercata e non tanto “sentita”, più voluta, che ogni nota rispondesse a una ragione. Io le ho applicate in tre composizioni di quel periodo queste regole. Ogni autore si deve inventare delle nuove regole in ogni opera. E’ giusto che i compositori facciano l’avanguardia ma poi trovino chiarezza perché la musica si deve ascoltare. Aldo Clementi è rimasto molto fermo sulle sue posizioni, ed è l’unico compositore al mondo che scrive pensando ai numeri. Mi piace tanto, indipendentemente dal risultato che ha. Poi il compositore può anche sbagliare. Se ci fosse mia moglie mi direbbe che parlo troppo che sono prolisso (ride).
Veniamo all’Oscar. Lei ha avuto una miriade di premi e solo nel 2007, dopo ben cinque nomination, le hanno finalmente dato la statuetta alla carriera. Come ha accolto questo riconoscimento e come le ha cambiato la vita?
Non m’ha cambiato niente (risponde un po’ piccato, ndr). L’ho accolto bene, non me l’aspettavo, sono stato contento di averlo preso, è un riconoscimento che mancava. Per Mission pensavo che arrivasse, posso capire che la musica degli Intoccabili abbia perduto di fronte a quella dell’Ultimo imperatore, che il film era già diventato un successo mondiale. Quella sera non sono stato molto deluso. Ma per Mission sono stato molto deluso (l’Oscar andò alla colonna sonora di Herbie Hancock per Round Midnight, ndr). Per Malèna, bah, l’Oscar l’ha vinto Tan Dun per La tigre e il dragone di Ang Lee. Più che altro la musica mi sembrava molto ben mixata e neanche fatta male. Però devo dire che non ho avuto grandi delusioni salvo che per Mission, quindi non mi aspettavo più niente. L’Oscar alla carriera è arrivato grazie alle lettere che hanno mandato tanti amici all’Academy Awards (l’ente che assegna le statuette, ndr) e si sono accorti che dopo cinque nominations sarebbe stato bene darmi la statuetta».
A Pescara ha ricevuto, nel 1997, il premio Flaiano (dieci anni prima dell’Oscar). Ha conosciuto Ennio Flaiano?
No, ma ho letto tante cose di Flaiano. E’ un genio straordinario. Ne ho letta una qualche giorno fa: Non si può avere un amante nel traffico caotico di Roma. Geniale.
Lei con l’Abruzzo ha un feeling particolare. E’ stato diverse volte a Teramo, a Pescara, all’Aquila, al Museo delle tradizioni e arti contadine del suo amico professor Franco Di Silverio.
Quello è un museo veramente da tener presente. Mi stupisce che l’onorevole Del Turco, presidente della giunta regionale, non ne tenga conto. Io gliel’ho raccomandato molto durante l’incontro all’Aquila (a novembre 2007). Mi aveva promesso che avrebbe fatto qualcosa per questo museo che si tiene in piedi da solo e per il quale io ho dato il 5 per mille della mia dichiarazione dei redditi. Mi stupisce che non abbia mantenuto la promessa. Ottaviano Del Turco è una persona corretta, fantastica, mi ha fatto una buonissima impressione ma che non abbia mantenuto la promessa e non si sia interessato del Mutac di Picciano, che poi fa in qualche modo riferimento alla sua idea socialista, di questo mi dispiace. Spero che ci ripensi.
Il rapporto con l’Abruzzo?
Guardi, io in Abruzzo conosco molte persone che mi sono molto care. Un grande dell’Abruzzo è certamente Ennio Flaiano, ma anche Gabriele D’Annunzio. Io adoro certe cose di D’Annunzio. Mia madre mi ripeteva questa melodia poetica, La pioggia nel pineto, me la diceva quasi cantando. Era un poeta grandissimo, poi ha scritto delle opere di cui potremmo anche non tenere conto. Ma, per me, un grande poeta, un grande letterato lo definisce pure una sola grande poesia, un grande romanzo. E Flaiano? Non è che lo conosca tutto ma tutto ciò che ho letto è grandioso. Alcuni scritti sono lapidari, divertenti, geniali. Altri cari amici che ho sono il professor Franco Di Silverio, Marcello Zaccagnini, il professor Carlo Casciani, il dottore Gabriele Lucci, il maestro Carlo Crivelli e altri.
Leggi QUI l’intervista ad Andrea Camilleri