C’è chi oggi ha trent’anni e vive subendo le angherie di un ventennio che ha svuotato questo Paese delle sue migliori opportunità e bellezze. C’è una classe politica, che ha pensato solo ai propri interessi, senza tener conto dei danni permanenti che oggi, molti di noi, si trovano costretti a pagare (Paolo Simoni) .

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E’ un ritorno alla musica di impegno, alla rivoluzione poetica, come la chiama, alla voglia di riprendere in mano il proprio futuro e a farlo nel proprio Paese. Lui ha 31 anni, viene da un piccolo centro (Porto Garibaldi, frazione di Comacchio, provincia di Ferrara) e il suo nuovo disco, Noi siamo la scelta è un grido, un richiamo a chi non ha voglia di arrendersi e senza scappare altrove, ha deciso di rimanere, per tentare di cambiare le cose. Paolo Simoni, musicista e cantautore, ha da poco pubblicato per Warner il concept album disponibile nei negozi tradizionali, in digital download e su tutte le piattaforme streaming. Il disco, prodotto da Claudio Maioli per Riservarossa, ha la produzione artistica di Luca Pernici. La tracklist propone nove tracce: “Il vuoto di questo tempo”, “Io non mi privo”, “Noi siamo la scelta”, “Lascia la tua impronta”, “Ho conosciuto l’amore”, “Una reazione”, “Ci sono cose che ti cambiano”, “Giuly”, “Suona pianoforte”. Paolo Simoni ha parlato del suo disco e della sua condizione di trentenne nell’Italia di oggi. Questa intervista è stata pubblicata sul quotidiano La Città.

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“Amico fai presto che il futuro ce lo portano via”. E poi. “Sei uno dei tanti di quella generazione che ce la può fare a cambiare le cose senza più scappare”. E’ importante che lo dica un giovane.

Ho voluto fare un disco proprio per parlare di queste cose. Intorno a me vedo che non c’è più nessuno che tratta questi argomenti, da musicista e da scrittore di canzoni mi sono messo subito in discussione e mi son detto: Ma perché non lo faccio? Un trentenne, oggi, deve prendersi la responsabilità del proprio presente e del proprio futuro. Continuare a delegare a qualcun altro, pensando che si farà carico di noi, ci porterà a  invecchiare senza aver risolto nulla.

Anche perché delegare a chi? A chi, in fondo, il futuro ve l’ha già portato via.

Esatto, siamo figli, come dico in “Io non mi privo”, di un ventennio che ci ha ripuliti da tutte le occasioni e ha creato una realtà che non esiste più. Noi ci ritroviamo con poco e nulla in mano, perché siamo lì con i nostri miti televisivi, con una reclame che ci ha cullato, ci hanno fatto promesse, ci hanno chiesto di impegnarci in cose che oggi non sono valide. Certo, non viviamo nel Terzo mondo, ma perché un Paese come questo, che è una meraviglia, deve avere dei giovani preparati e l’unica idea che hanno è andarsene? E se restano fanno i camerieri. La mia generazione deve avere la capacità di lottare per i propri diritti. Una lotta, ovviamente, senza violenza, senza bombe, una rivoluzione poetica, la chiamo io. Mi piacerebbe che questa rivoluzione partisse dai giovani, soprattutto dagli artisti, di qualsiasi natura, che ricomincino a raccontare ciò che ci riguarda. Si creerebbe un rapporto intimo tra il pubblico, i giovani, e chi fa arte e ci porterebbe di nuovo a fare gruppo. L’arte come base per ripartire.

Questa determinazione a riprendersi il futuro, tra i suoi coetanei, è vissuta, è sentita?

Mah, sì. Lo dico anche nel disco, ma la mia generazione è fatta di gente che lotta per se stessa. Uno che decide di andare all’estero non è che se ne stia con le mani in mano, ma non abbiamo il senso del gruppo. La cosa bella della vostra generazione, di quella precedente la nostra, era questo: nelle università, nelle piazze, ci si metteva insieme per rivendicare i propri diritti. Oggi non si va neanche a votare, ed è tristissimo… Un ventenne, un trentenne che non partecipa alle elezioni, non va a firmare per decidere il proprio futuro fa un errore grave, è la pecca più grande della mia generazione. Ci siam fatti spaventare, siamo un po’ rattrappiti. E con questo disco cerco di incitare i miei coetanei: “Svegliamoci, cerchiamo di re-innamorarci di noi, di non vederci sempre come nemici tra di noi e se domani c’è da andare a lottare per un diritto, facciamolo!

Nel suo disco si sentono forti accenti “dalliani”. Le dispiace, ne è contento, è naturale, vista anche la sua storia e la sua crescita artistica?

Non mi dispiace, sono nato artisticamente tra Ferrara e Bologna, e con Dalla ci ho anche lavorato. L’accostamento a lui credo sia dovuto più che altro alla mia vocalità, anche perché ho studiato con Iskra Menarini che era la sua corista, ma in generale mi sento legato a tutta la scuola bolognese di cantautori. Sono cresciuto con Guccini. Mi ha sempre affascinato il testo, la parola cantata. E poi, in Emilia c’è una tradizione del racconto, a partire dai nostri padri contadini, quella aggregazione che per loro era il momento dell’incontro dopo una giornata di lavoro nei campi, magari davanti a un bicchiere di vino. E a Bologna, ancora oggi, nei locali, nelle osterie trovi tanti universitari che si ritrovano a discutere. Infine, sono figlio di ristoratori, di cuochi, di pescatori, sono originario di Porto Garibaldi sulla riviera romagnola, sono cresciuto in un ristorante, e ho visto sempre persone che parlavano davanti a dell’ottimo pesce.

C’è ancora spazio per i cantautori in Italia? E soprattutto per la sua generazione?

Certo che sì, è pieno di giovani. E questa è un’altra delle mie lotte personali. Purtroppo nel mainstream l’attenzione si è spostata sui talent, sul pop. Va bene, ma questo trend ha escluso il cantautore che vuol raccontare. E io che voglio restare nel mainstream, non voglio fare il cantautore indie, proseguo la mia piccola battaglia di mantenere alta l’attenzione sulla musica d’autore. E’ la mia scalata personale, iniziata già da qualche anno.

Cosa ascolta, normalmente? E cosa legge, soprattutto.

Leggo tanto, sto ultimando “Pastorale americana” di Philip Roth, avevo già letto “Indignazione” e “Lamento di Portnoy”. Mi piace molto, sono cresciuto con gli autori americani, con la beat generation. Ascolto tanto jazz, non dimenticare che sono un sassofonista, ma anche classica, Coldplay, un po’ di tutto. Uso spesso anche Spotify.

Come cambia il modo di intendere la musica dopo Internet, dopo i Social, o, appunto, dopo Spotify?

Il cd sta scomparendo, è inevitabile. Spotify è un’applicazione che fa scoprire tante novità. Ti vengono suggeriti dei brani, ma se uno vuole può cercare dei dischi in particolare. Avevo ascoltato un brano di Brian Eno su Spotify, mi è talmente piaciuto che poi sono andato a comprare il cd e ne ho presi altri tre. Mi piace questa facilità di accesso che non necessariamente distrugge il mercato, anzi. La scorsa settimana su Spotify ero sesto con “Io non mi privo”. Poi, certo, i giovanissimi magari ascoltano solo tramite Spotify o YouTube. Però, cambia il supporto ma la musica rimane sempre. I tempi cambiano e bisogno adattarsi, non c’è niente da fare.

 

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